Non è un prefisso telefonico. Nemmeno un codice di avviamento postale o una matricola di lavoro. È il numero che dal 1944 la senatrice Liliana Segre ha tatuato nell’avambraccio sinistro.
Come la senatrice Segre, milioni di ebrei deportati dai nazisti hanno ricevuto un simile trattamento. Nella ricorrenza della liberazione del campo di Auschwitz-Birkenau, il 27 gennaio 1945, dal 2005 Giorno della Memoria, non possiamo rimanere indifferenti al tremendo genocidio di cui fu vittima il popolo ebraico e alcune minoranze, come gli zingari. Quel numero poteva essere rimosso dal braccio della senatrice Segre, ma “orgogliosamente” esibito per poter tenere sempre viva la memoria degli anni più bui della storia.
Purtroppo la storia, a volte, non insegna nulla. Nel corso degli ultimi decenni altri popoli sono stati vittime di genocidi e di violenza. Ancora nei giorni d’oggi sono tante le minoranze vittime di disegni persecutori e di annientamento. Rendere vivo il Giorno della Memoria, significa non rimanere sordi e impassibili alle violenze che si perpetuano ogni giorno in nome di una superiorità di razza. Significa impegnarsi che nei giovani non nascano sentimenti di odio. Significa adoperarsi affinché tutti i popoli abbiano la stessa possibilità di crescita e di pace. Significa attuare ciò che nella nostra meravigliosa Costituzione è scritto all’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
I campi di concentramento non sono un’invenzione di qualcuno. Sono la triste realtà dove milioni di persone hanno conosciuto la persecuzione e la morte. Facciamo in modo che non nascano altre forme di campi di concentramento, magari con il nostro silenzio.
Rendiamo partecipi i più giovani di quello che è successo durante la seconda guerra mondiale. Sarebbe importante che tutti abbiano la possibilità di vedere con i propri occhi, i luoghi del massacro. In religioso silenzio, perché ancora oggi l’aria che si respira parla di chi non c’è più.